Wang Bing è il cineasta che si si sforza di seguire le orme degli esclusi dal miracolo economico cinese.
WANG BING – L’ŒIL QUI MARCHE
Inaugurato nel 2010, LE BAL è un centro artistico indipendente a Parigi. Si concentra sulla fotografia documentaria, video, cinema e nuovi media attraverso mostre, produzione, pubblicazione di libri, conferenze e dibattiti.
Dal 26 maggio LeBal presenta una mostra del regista cinese Wang Bing (Xi’an, 1967) dal titolo L’œil qui marche/ L’occhio che cammina, curata da Dominique Païni e Diane Dufour.
Wang Bing è noto per un particolare stile in cui il documentario si fa drammaturgia del reale e da cui emerge un quadro duro e sgomento di microcosmi cinesi ai margini dell’ufficialità.
Di questi il regista rivela contraddizioni e aspetti sconosciuti, con uno stile estremo, per durata e crudezza.
Il suo cinema ripercorre momenti importanti della storia cinese, mantenendo un occhio di riguardo per piccole, grandi storie di coloro che vivono sulla propria pelle le conseguenze tragiche di determinati eventi storici
Un giorno del 1999, nel nord-est della Cina, un uomo di 32 anni che ha studiato fotografia in una scuola d’arte, afferra una piccola videocamera amatoriale e filma da solo, per quasi 2 anni, la scomparsa del più grande complesso siderurgico cinese.
Il risultato West of the Rails (2003), un film magistrale di 9 ore, vissuto da molti come l’avvento di un regista e un modo unico di diventare un tutt’uno con il cinema.
Così inizia la storia artistica di Wang Bing.
Il significato politico del cinema di Wang Bing, mai rivendicato apertamente, si esprime attraverso un’etica di pazienza, concentrazione e perseveranza.
Essere lì, né troppo lontano né troppo vicino, aspettare, non partire, non intervenire, non sapere a priori, lasciare che la verità dei personaggi si realizzi da sola: questo accorgimento minimale riflette chiaramente il desiderio di sottomettersi a ciò che succede.
Ma, per quanto possa cedere il primo piano agli altri, Wang Bing stesso non scompare.
Tutto si vede e si sente attraverso la sua macchina fotografica, unico punto di cattura.
Il suono del suo respiro o dei suoi passi, la domanda di un operaio (“Stai filmando?”), attesta l’onnipresenza invisibile, come un filtro sensibile, del suo corpo che filma.